Come lo spazio anticipò la caduta del Muro

Diversi vettori per testate nucleari intercontinentali. Non a caso il Titan II venne usato sia per scopi bellici sia, una volta modificato, come vettore per le capsule Gemini.

Che la conquista dello spazio, e successivamente della Luna, sia stata innescata e alimentata dalla Guerra Fredda tra USA e URSS è noto a tutti. Per le due super-potenze, conquistare lo spazio significava sottolineare il proprio potere economico, industriale e politico. Inoltre, il primato nella balistica avrebbe garantito la supremazia militare, poiché avere un missile capace di volare e colpire un bersaglio dalla parte opposta del mondo avrebbe cambiato radicalmente le strategie belliche. Gli USA speserò fino al 2,2% del loro budget federale per recuperare l’iniziale svantaggio rispetto ai sovietici, così da arrivare infine per primi a piantare la propria bandiera sul nostro satellite. I sovietici, d’altro canto, per l’esplorazione lunare puntarono su missioni robotiche piuttosto che umane.

In un clima decisamente ostile e avverso a qualsiasi collaborazione, ci fu un primo contatto tra USA e URSS proprio relativamente all’esplorazione spaziale. Ciò avvenne subito dopo il famoso discorso del presidente Kennedy alla Rice University.

Il discorso di JFK alla Rice University 12 settembre 1962.

We choose to go to the Moon… in this decade and do the other things, not because they are easy, but because they are hard!” Pochi giorni dopo questo discorso il presidente, in un summit del 1961, propose al leader dell’URSS Khrushchev di trasformare la sfida della conquista della Luna in una collaborazione tra le due superpotenze. Non ci fu una chiusura totale, ma un rinvio della discussione dopo la negoziazione del trattato sul bando dei test nucleari. Nel settembre del 1963 la questione venne riproposta dal presidente all’assemblea dell’ONU, ma purtroppo l’inizio della costruzione del Muro di Berlino e gli strascichi delle vicende alla Baia dei Porci misero fine a qualsiasi possibilità di cooperazione.

Checkpoint Charlie, uno dei punti di passaggio tra Berlino Est e Berlino Ovest. Credit: il Post.

I tempi non erano ancora maturi per una vera cooperazione. Tuttavia, presto avvenne qualcosa di inaspettato: nell’ambito dell’esplorazione spaziale, per la prima volta nel dopoguerra, le due super-potenze iniziarono a collaborare. Il contesto in cui ciò avvenne si intreccia con le vicende di alcune delle più famose missioni spaziali della storia.

La sonda sovietica Luna 15

Luna 15

Mentre Apollo 11 si avvicinava alla Luna, anche la missione sovietica Luna 15 era in direzione del nostro satellite. Il suo compito era quello di scattare foto della superficie, studiare il campo gravitazionale e addirittura raccogliere rocce lunari che sarebbero dovute essere successivamente riportate a Terra (purtroppo la missione terminò il 21 luglio, quando la sonda si schiantò, dopo aver perso i collegamenti col centro di controllo a circa 3 km dal suolo durante la discesa). Luna 15 era stata lanciata dal cosmodromo di Baikonur e dunque la NASA temeva che la sua rotta potesse interferire con quella di Apollo 11, che stava trasportando verso il nostro satellite tre esseri umani, esattamente negli stessi giorni.

L’astronauta Frank Borman

Venne dunque attivata una trattativa diplomatica, affidata sorprendentemente non a un politico, ma a un pilota. Infatti, da pochi giorni l’astronauta Frank Borman era tornato da un’importante visita ufficiale nell’URSS, dove aveva conosciuto vari cosmonauti e il direttore del programma di voli nello spazio sovietico Kamanin (il quale disse che Borman possedeva un grande talento oratorio, nonché uno spiccato senso per la diplomazia). Così, fu proprio Borman a contattare Mstislav V. Keldysh, il capo dell’Accademia delle Scienze Sovietica, esprimendogli le sue preoccupazioni per le interferenze tra Apollo 11 e Luna 15. Appena un paio d’ore più tardi, Keldysh trasmise il piano di volo di Luna 15 alla NASA, rassicurando così gli statunitensi che non ci sarebbero state collisioni con la missione comandata da Armstrong.

Apollo 13

Nove mesi dopo gli avvenimenti di Luna 15, il 14 aprile 1970, venne pronunciata da Swigert la famosa frase “Okay, Houston, we’ve had a problem here”. Il viaggio verso la Luna dell’Apollo 13 si era trasformato in un disastro e il nuovo obiettivo della missione non era più raggiungere la Luna, ma riportare a casa gli astronauti.  

Houston, we’ve had a problem

Grazie al sistema di propulsione del modulo lunare (che era stato progettato per altro scopo), l’equipaggio era riuscito a impostare la traiettoria di rientro a Terra in emergenza. I nuovi parametri orbitali però rendevano complicato il calcolo preciso del punto di ammaraggio, che doveva avvenire immediatamente per garantire la salvezza dei tre astronauti. Le flotte statunitensi vennero mobilitate sia nel Pacifico che nell’Atlantico e sulle frequenze radio alla comunicazione con la navicella venne assegnata la priorità assoluta.

L’URSS non rimase a guardare e si dimostrò pronta a fornire concretamente il suo aiuto: tutte le stazioni radio sovietiche sospesero la trasmissione sulla banda di frequenze usate da Apollo per impedire qualsiasi interferenza. Inoltre, le flotte sovietiche vennero allarmate e dispiegate negli oceani, per essere messe a disposizione dei rivali nel recupero della navicella.

Jim Lovell, Fred Haise e Jack Swigert appena ripescati dalla USS Iwo Jima dopo l’amaraggio dell’Apollo 13

Ecco le parole di Ernst Stuhlinger, direttore della NASA, in una famosa lettera dell’epoca. “Let me only remind you of the recent near-tragedy of Apollo 13. When the time of the crucial reentry of the astronauts approached, the Soviet Union discontinued all Russian radio transmissions in the frequency bands used by the Apollo Project in order to avoid any possible interference, and Russian ships stationed themselves in the Pacific and the Atlantic Oceans in case an emergency rescue would become necessary”.

Apollo-Soyuz Test Project

Skylab credit: earthobservatory.nasa.gov

Gli ultimi astronauti verso la Luna erano stati lanciati nel dicembre ’72, con Apollo 17, e nel 1973 gli USA avevano messo in orbita la stazione spaziale Skylab (costruita all’interno di un secondo stadio vuoto del vettore Saturn IB). Due anni prima, nel 1971, i sovietici avevano lanciato la Saljut 1: la prima stazione spaziale della storia (ne lanciarono 7 fino al 1982 e la Saljut 7 rimase in attività fino al 1986, anno della messa in orbita della stazione spaziale Mir).

Era terminata l’era della conquista della Luna ed era iniziata quella della lunga permanenza in orbita terrestre: lo spazio attorno al nostro pianeta si preparava ad ospitare anche la vita, oltre agli innumerevoli satelliti già presenti. In questa fase, USA e URSS collaborarono attivamente a una missione congiunta, che richiese ben 5 anni di preparativi. L’obiettivo era alquanto ambizioso: l’aggancio in orbita tra una navicella Apollo e una capsula Soyuz. L’operazione portava il nome di Apollo-Soyuz Test Project (ASTP).

La capsula Soyuz parti il 15 luglio 1975 dal cosmodromo di Bajkonur, alle 17:20 ora locale, per la prima volta in diretta sulle televisioni internazionali. Su quella stessa piattaforma da cui 14 anni prima era decollato Yuri Gagarin, questa volta vi erano gli esperti cosmonauti Aleksei Leonov e Valerij Kubasov. Leonov era stato il primo essere umano a svolgere nel 1965 un’attività extra-veicolare, con la Voschod 2 (quasi finita in tragedia poiché la tuta spaziale si era gonfiata troppo, non permettendo il rientro nella navicella). Kubasov invece era stato protagonista di quella che fu la prima missione con tre navicelle spaziali in contemporanea, pilotando la Soyuz 6 nel 1969.

Riproduzione della missione Apollo-Soyuz allo Smithsonian National Air and Space Museum (foto dell’autore)

Sette ore più tardi, da Cape Canaveral, una navicella Apollo venne lanciata in orbita con un Saturn IB (la versione ridotta del lanciatore lunare). L’equipaggio era composto dal comandante Tom Stafford (addirittura alla sua quarta missione, cosa che soltanto altri 3 piloti potevano vantare a quel tempo), Vance Brand (al suo primo volo) e Deke Slayton. Quest’ultimo, nel 1959 era stato inserito nel primo gruppo di astronauti “i magnifici sette” per il primo spaziale Mercury, ma a causa di un problema cardiaco egli non aveva mai potuto volare. Così si era occupato della selezione degli equipaggi per le varie missioni, con il ruolo di direttore delle Flight Crew Operation. Contemporaneamente però, Slayton smise di fumare, di bere caffè e alcolici e si sottopose a un pesante allenamento fisico: nel 1970 non vi era più traccia della sua fibrillazione atriale e l’astronauta poté riacquisire la licenza di volo.

Il primo contatto visivo tra le due navicelle avvenne il 17 luglio, e poco dopo ci fu l’attracco, con Apollo nel ruolo attivo della manovra. In un momento di grande importanza per la storia umana, i due equipaggi poterono salutarsi e passare da una navicella all’altra (anche se almeno un membro dell’equipaggio rimaneva sempre a bordo della propria navicella). Un aspetto delicato delle operazioni fu la diversa atmosfera delle due navicelle: quella statunitense era composta da ossigeno puro con una pressione del 34%, mentre quella sovietica era invece come quella terrestre con una miscela di azoto e ossigeno.

Slayton e Leonov si abbracciano. Credit: NASA.gov

Dopo 44 ore di attività congiunta le due navicelle si staccarono per poi effettuare un secondo attracco tra loro, questa volta con la Sojuz nel ruolo attivo di manovra. Poco dopo, le due capsule si separarono definitivamente e iniziarono la discesa a Terra.

Per la missione Apollo, questo fu la parte più pericolosa: per un errore dell’equipaggio i due interruttori che avrebbero fatto aprire automaticamente i paracaduti non vennero azionati. Come se non bastasse, due valvole lasciate aperte inondarono la cabina di gas tossici. Fortunatamente Vance Brad riuscì ad aprire manualmente i paracaduti, ma questo avvenne a circa 2700 metri di quota al posto che ai 7000 previsti, dunque la navicella ammarò con estrema violenza e, per di più, in posizione capovolta. Sempre Brand riuscì a farla capovolgere prima di perdere i sensi. Stafford invece aprì il portellone cosicché i gas tossici poterono disperdersi. L’equipaggio dunque non riportò conseguenze, ma dovette comunque rimanere in osservazione per due settimane.

Il presente: lo spazio dell’umanità

A seguito del progetto Apollo-Soyuz non vi furono altre collaborazioni tra le due super-potenze e bisognerà aspettare addirittura vent’anni per vedere volare assieme di nuovo una navicella sovietica con una statunitense. Questo avvenne soltanto con la missione Shuttle-Mir del 1995, e successivamente con la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale.

Se guardiamo i cinquant’anni di guerra fredda, lo spazio ha rappresentato una delle pochissime occasioni di cooperazione tra USA e URSS. È sulla scia di questi episodi che oggi possiamo esplorare lo spazio e tornare sulla Luna in un modo sicuramente più efficace e soddisfacente, ovvero uniti come membri dell’umanità prima di tutto.

Paolo Romagnoli

Lavoro con la cooperazione internazionale, ma principalmente lo faccio per poter sdraiarmi a vedere stellate sempre diverse in giro per il mondo. Da sempre appassionato di storia delle missioni spaziali, ascoltatore seriale di podcast e cercatore degli aneddoti più strani e curiosi che poi sento il bisogno di raccontare a tutti. Da piccolo volevo fare l’astronauta, ma al liceo ho capito che la fisica e la matematica non erano per me. Amo la divulgazione in qualsiasi forma, anche se preferisco quella fatta a voce davanti a una buona birra.

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